'Illustri Ospiti, care Colleghe e cari Colleghi, Signore e Signori,
grazie a tutti per aver voluto essere qui.
Ma è soprattutto voi, imprenditrici e imprenditori italiani, che sento il dovere di ringraziare per la fiducia che mi avete accordato, affidandomi un incarico che mi onora e di cui sento tutta la responsabilità.
E, a nome di tutti, vorrei rivolgere un grazie particolare a Luca di Montezemolo, che in questi quattro anni ha guidato Confindustria con intelligenza e straordinaria passione.
Oggi, Confindustria è autorevole, autonoma dai partiti, capace di portare le ragioni del fare impresa al centro dell’agenda del Paese. Ed è soprattutto una Confindustria forte e unita. Tutto ciò è il frutto dell’eccezionale lavoro di questi anni.
Consentitemi un ringraziamento speciale ai miei genitori, Steno e Mira. Non sarei qui senza la forza del loro insegnamento e del loro esempio. Fin da quando mi posso ricordare, ho respirato impresa. Da loro ho imparato la responsabilità dell’imprenditore nei confronti dei collaboratori e della società.
Confindustria ha assunto un impegno di fronte al Paese: contrastare la logica del declino, ritrovare la strada della crescita e dello sviluppo.
Nonostante la situazione economica difficile, l’industria italiana ha compiuto uno straordinario cammino. Di tutto questo, noi imprenditori dobbiamo essere giustamente orgogliosi. In sala vedo oggi tanti protagonisti di storie italiane di lavoro e di successo. Grazie a voi il made in Italy continua ad essere un riferimento nel mondo. Le piccole e medie imprese hanno svolto un ruolo fondamentale.
In un decennio sono stati creati più di 2 milioni e 700 mila nuovi posti di lavoro dipendente, di cui oltre 2 milioni a tempo indeterminato. Negli ultimi due anni le esportazioni italiane sono cresciute a ritmi sostenuti, analoghi a quelli della Germania.
Crescono anche al di fuori dell’area dell’euro, malgrado l’erosione dei margini imposta da una rivalutazione eccessiva del tasso di cambio.
Ma dal terzo trimestre del 2007, e in modo assai più netto con l’inizio di quest’anno, il quadro internazionale è peggiorato. Le prospettive per il 2008 e il 2009 restano incerte. La crisi finanziaria, la quasi recessione americana, il rialzo dei prezzi del petrolio e di molte materie prime fanno rallentare fortemente la crescita economica mondiale.
La vitalità delle nostre imprese non è sufficiente ad assicurare lo sviluppo e a compensare da sola la scarsa competitività del Paese.
La crisi internazionale mette a nudo drammaticamente tutte le debolezze del sistema. Non possiamo più eludere o rinviare quelle scelte, anche difficili e impopolari, che sono indispensabili per non compromettere il nostro futuro.
A questo proposito, purtroppo, c’è poco di nuovo.
Eccesso di burocrazia, di spesa pubblica, di pressione fiscale da una parte e scarsa produttività, insufficiente investimento in ricerca e formazione dall’altra, sono i problemi che solleviamo da tempo.
Non possiamo perdere di vista le principali riforme istituzionali: più poteri al premier, nuova legge elettorale, superamento del bicameralismo perfetto.
Ci aspettano sfide impegnative. Ma in Italia si è creata una situazione favorevole al cambiamento. C’è un nuovo Governo sostenuto da una forte maggioranza parlamentare. C’è un clima di minore contrapposizione e di rispetto reciproco fra maggioranza e opposizione, di collaborazione sui grandi temi. C’è una consapevolezza diffusa della gravità della situazione.
Chi ha l’onore e l’onere di governare compia le scelte necessarie, senza farsi condizionare dal consenso di breve periodo che porta all’immobilismo. L’opposizione guardi con responsabilità all’interesse generale. La situazione economica non consente tatticismi o rinvii.
Voglio dire con chiarezza che l’approvazione, ieri, del decreto per la detassazione degli straordinari e dei premi variabili è un segnale importante. È una misura che Confindustria propone da tempo.
È una indicazione precisa ai lavoratori e alle imprese sulla strada da prendere per gli assetti contrattuali. Siamo soddisfatti di questo primo intervento.
Certo i problemi sono tanti e vanno affrontati anche alla luce dei mutamenti in corso nello scenario internazionale.
*****
La globalizzazione dei mercati, le nuove tecnologie, i flussi migratori sono realtà con le quali dobbiamo misurarci. Un’opzione diversa non c’è. Il tema è come gestire la globalizzazione, quale governance adottare.
Non è un periodo esaltante. Come spiega l’economista indiano Bhagwati, liberalizzare quando l’economia non cresce è assai difficile, ma -aggiunge -alla fine la gente capirà che alzando barriere non si va da nessuna parte.
Globalizzazione non vuol dire solo bassi salari e delocalizzazione delle produzioni. Significa anche mercati che si aprono, nuovi prodotti e processi produttivi, opportunità di investimento. Il 40% delle esportazioni cinesi -per 500 miliardi di dollari - è frutto di joint venture con imprese occidentali che hanno investito in Cina. Frenando quelle esportazioni, colpiremmo anche le imprese dei nostri paesi.
Ma il buon funzionamento del commercio internazionale richiede il rispetto di regole comuni. Non sono accettabili la concorrenza sussidiata da monopoli interni, il dumping economico o sociale, la sistematica sottovalutazione del cambio, la contraffazione, l’abbassamento degli standard di sicurezza dei prodotti, l’assenza di vincoli alle emissioni nell’ambiente.
L’Unione Europea resta il nostro punto fondamentale di riferimento. Ma talvolta sembra più interessata a porre vincoli e limiti ai suoi cittadini e alle sue imprese, piuttosto che a svolgere un ruolo forte nella difesa di un mercato mondiale con regole certe e valide senza eccezioni.
Noi non chiediamo la tutela acritica degli interessi europei. Ma non possiamo nemmeno accettare impostazioni utolesionistiche, come continuare con l’adozione unilaterale del protocollo di Kyoto.
Condividiamo l’idea di interventi coordinati per i cambiamenti climatici. Ma non accettiamo un atteggiamento che rischia di rendere difficile e costosissimo fare impresa in Europa, lasciando che chiunque inquini a piacimento fuori dal nostro territorio.
L’Europa deve ritrovare leadership a livello internazionale per guidare i cambiamenti e le sfide in maniera condivisa. Ha gli strumenti per farlo. La sua azione deve essere rafforzata e resa più incisiva. Così aiuterà lo sviluppo e potrà contrastare le pulsioni protezionistiche che ciclicamente emergono come risposta ad una globalizzazione non sufficientemente governata.
Questa esigenza diventa prioritaria in una fase di debolezza dell’economia internazionale.
L’esplosione del prezzo delle materie prime deprime lo sviluppo in tutti i paesi importatori. I rialzi sono accentuati da speculazioni finanziarie, da barriere commerciali al libero scambio di prodotti agricoli, dai sussidi alle coltivazioni dei paesi avanzati. E’ giunto il momento di ripensare la politica agricola europea.
Serve più domanda interna in Europa. Bisogna aprire i mercati dei servizi, aumentare gli investimenti nelle tecnologie digitali ed energetiche, nelle reti infrastrutturali, nell’ambiente.
Per finanziare questi progetti servirebbe una revisione complessiva del budget comunitario. E va approfondita la proposta di obbligazioni europee sul mercato dei capitali, come ha rilanciato Giulio Tremonti.
L’Unione Europea deve anche adottare una credibile ed efficace politica comune per la sicurezza energetica: diversificazione delle fonti, strutture distributive cross-border, un vero mercato unico per l’elettricità e il gas. Deve avere una voce unica nei rapporti con i paesi produttori.
Perché l’energia potrebbe essere in futuro il terreno di scontro tra le diverse aree del globo.
E deve prendere piena coscienza del ruolo sempre più importante dell’euro. Sono passati quasi dieci anni dalla nascita della moneta unica. Ci siamo assicurati prezzi più stabili, tassi d’interesse più bassi, disavanzi pubblici più contenuti.
Le imprese europee hanno imparato a convivere con l’euro forte che aiuta a contenere i costi delle importazioni, stimola gli incrementi di produttività, favorisce l’internazionalizzazione dei nostri investimenti. Ma un euro troppo sopravvalutato nei confronti del dollaro penalizza in modo insostenibile le nostre esportazioni.
L’Unione Europea deve continuare a spingere il G8 a pronunciarsi sui cambi e deve coinvolgere la Cina nelle discussioni sull’assetto valutario. La BCE non dovrebbe sottovalutare il rallentamento delle economie europee.
La crisi dei mercati finanziari sembra ancora lontana dall’essere riassorbita e allunga le sue ombre sulle prospettive di breve e medio termine. Deve indurre a profonde riflessioni.
Molti prodotti finanziari offerti sui mercati internazionali erano complessi e opachi e hanno addossato ai clienti rischi molto alti.
La fase dell’eccesso di debito e dei castelli di carta è finita. All’azione di stabilizzazione attuata con successo dalle banche centrali dovrà seguire un’ incisiva azione dei regolatori.
Resta una considerazione più generale. La finanza è una straordinaria leva di sviluppo e molti strumenti innovativi hanno giocato un ruolo importante. Ma la pura produzione di finanza a mezzo di finanza, senza valore aggiunto per debitori e investitori, ha mostrato tutti i suoi limiti e ha generato una profonda crisi di fiducia.
La favola del credito ad alto profitto e senza rischi è stata smascherata. E’ tempo di tornare alla vecchia e solida realtà dei finanziamenti all’attività produttiva e agli investimenti.
Le banche italiane sono quelle in assoluto con meno rischi e responsabilità. Hanno di fronte la grande opportunità di porre ancora di più al centro delle proprie strategie il rapporto con le imprese. In una fase di forte rallentamento dell’economia le banche italiane possono dare un segnale importante in questa direzione. Così lavoreremo insieme per riprendere il cammino della crescita puntando su investimenti, innovazione, occupazione.
*****
La malattia dell’Italia si chiama crescita zero. Il ritorno alla crescita, ad una crescita sostenuta, deve essere il nostro vero obiettivo strategico. Chi non condivide questa priorità gioca contro l’Italia e gli italiani. Su questo non possono più esistere posizioni neutre.
La bassa crescita ha costi elevati. Il nostro PIL sarebbe superiore di 150 miliardi di euro se negli ultimi dieci anni fossimo cresciuti come la media degli altri paesi europei.
Le istituzioni politiche, economiche e sindacali non si sono adeguate al mondo in cambiamento. Corporazioni agguerrite hanno impedito di sciogliere i nodi che ci soffocano.
Nei decenni passati, rinviare gli interventi necessari, distribuendo sussidi e posti di lavoro pubblico, ha condotto ad un’espansione della spesa, ad un fisco oppressivo, al secondo debito pubblico, in rapporto al PIL, di tutti i paesi industrializzati.
Vi è una grave sottocapitalizzazione del Paese. Dall’inizio degli anni novanta, invece di contenere stipendi pubblici e pensioni, si sono tagliati gli investimenti per infrastrutture, servizi di trasporto, scuola, giustizia, forze dell’ordine, carceri.
Così paghiamo il prezzo di un isolamento strutturale dei territori e delle persone per collegamenti stradali, ferroviari e portuali inadeguati. Siamo in ritardo nei servizi informatici ad alto valore aggiunto che contraddistinguono i paesi moderni.
I sistemi di gestione dei rifiuti sono vicini al collasso in molte regioni, anche perché si dice di no ai termovalorizzatori, attivi in tutti gli altri paesi. Paghiamo i costi più alti d’Europa per l’energia. Manca una strategia di investimenti per la sicurezza e la diversificazione energetica perché ci arrendiamo ai veti delle minoranze.
Serve un ambiente più favorevole all’assunzione del rischio, all’attività d’impresa, agli investimenti.
In un mondo globale, un paese dove la cultura d’impresa non è condivisa è destinato ad un ruolo subalterno. E’ questo che vogliamo? No. Ma troppo spesso si è pensato di tutelare l’interesse pubblico limitando l’attività imprenditoriale, come se le aziende fossero una sorta di male necessario da ingabbiare e vincolare. L’impresa sana che rispetta le regole è protagonista della crescita economica, ma anche dello sviluppo sociale e civile della nazione.
*****
Siamo un paese anziano, viviamo di rimpianti e recriminazioni e poco di progetti. Litighiamo spesso sul passato, non ci confrontiamo sul futuro. E chi è troppo curioso delle cose del passato - ci ricorda Cartesio -rischia di diventare molto ignorante di quelle presenti.
Dobbiamo guardare avanti, alle cose da fare. La prima è sbloccare gli investimenti che sono pronti a partire, fermi per inesistenti problemi ambientali. Impianti energetici, rigassificatori e termovalorizzatori, infrastrutture a rete materiali e immateriali, insediamenti produttivi: sono centinaia le opere e gli stabilimenti incredibilmente in attesa di autorizzazione.
Certo, ci vogliono trasparenza e dialogo con le popolazioni interessate.
Ma poi bisogna decidere. E bisogna dire alla gente la verità. C’è chi manifesta contro ogni nuova centrale, ma si lamenta per l’aumento delle bollette delle famiglie. O chi impedisce la realizzazione di impianti e discariche preferendo lasciare la popolazione in mezzo a montagne di rifiuti.
Non accetteremo più che piccoli gruppi, spesso in malafede, tengano in scacco il Paese. E’ a queste furbizie di bassa lega che dobbiamo dire basta.
L’investimento in tecnologie può essere catalizzato da pochi grandi progetti paese: il nucleare di nuova generazione, la mobilità, il risparmio energetico, le tecnologie ambientali. Sono questi i temi che devono restare al centro della politica industriale.
*****
Abbiamo davanti a noi sfide impegnative e progetti ambiziosi. Non una fase da piccolo cabotaggio. Dobbiamo cambiare il Paese nell’interesse delle imprese e dei cittadini, soprattutto dei più giovani.
Noi continueremo a esprimere con determinazione e forza, con passione ed entusiasmo, la cultura d’impresa, le ragioni di chi vuole continuare a crescere.
Vogliamo contribuire così ad un grande disegno di sviluppo economico e sociale dell’Italia e degli italiani. Collaboreremo con il Governo per realizzare le riforme necessarie. Continueremo sulla strada dell’autonomia, che per noi ha un significato molto chiaro: vogliamo essere fuori dai partiti per rappresentare ovunque le ragioni della crescita.
Noi riconosciamo il primato della politica. Ma la politica deve meritarlo e giustificarlo con i risultati. Gli elettori hanno fortemente penalizzato, fino ad escluderle dal Parlamento, quelle forze portatrici di una cultura anti industriale. Per la prima volta, tutte le formazioni politiche presenti nelle due Camere condividono i valori del mercato e dell’impresa. Stiamo assistendo a una significativa semplificazione del sistema politico.
Io sento il dovere di essere, malgrado tutto, ottimista. Mi sembra che si stia esaurendo, nella coscienza collettiva, quel conflitto di classe fra capitale e lavoro che ha segnato la storia degli ultimi 150 anni. Oggi si fa strada la consapevolezza che la crescita economica è il vero bene comune.
Possiamo chiudere una lunga stagione di antagonismo, pensare in maniera nuova il confronto con i sindacati e il modello di relazioni industriali. Oggi sono obsolete. Dopo quattro lunghi anni, CGIL, CISL e UIL hanno finalmente definito una posizione unitaria e questo rappresenta un punto di partenza importante. Non è una piattaforma, ma una proposta per avviare una trattativa nuova, lontana dai riti inconcludenti del passato.
Certo, molte proposte non sono per noi condivisibili, come l’idea di indicizzare le retribuzioni ai prezzi che ci porterebbe fuori dall’Europa. Ma finalmente ci sono le condizioni per iniziare un confronto, cambiare le regole del gioco, modernizzare il sistema.
Ai sindacati voglio dire: poniamoci davvero l’obiettivo comune, forti della nostra autonomia e del nostro ruolo di parti sociali, di raggiungere un’intesa entro pochi mesi. E’ alla nostra portata. Se ci riusciremo, scriveremo una pagina importante nella storia delle relazioni industriali e libereremo energie in favore dello sviluppo.
Noi siamo pronti.
Negli ultimi dieci anni il costo del lavoro è salito in Italia in linea con la media europea ma non altrettanto ha fatto la produttività. Abbiamo perso competitività: meno 10 punti rispetto alla media dell’area euro e meno 18 nei confronti della Germania.
La produttività è ciò che in questi anni è mancato alla nostra economia. Solo con un forte recupero di produttività sarà possibile conciliare crescita e occupazione, competitività e incremento dei salari: tutti obiettivi essenziali per il Paese.
Il sistema di contrattazione è ancora quello del 1993, approvato quando c’era la lira e la globalizzazione muoveva solo i primi passi.
E’ stato per molti anni un buon sistema, ha raffreddato l’inflazione. E’ inadeguato alle esigenze di oggi perché impone a realtà produttive diverse retribuzioni e organizzazione del lavoro uniformi. Non favorisce la contrattazione di secondo livello che potrebbe coniugare meglio retribuzione e produttività.
Occorre alleggerire il contratto nazionale per dare più spazio e risorse alla retribuzione legata all’aumento di produttività e ai risultati aziendali.
I sindacati italiani sono una grande organizzazione, con dodici milioni di iscritti. Sta al coraggio dei loro leader impiegare questa forza a favore del cambiamento, del benessere, delle opportunità per i giovani.
Una parte della cultura sindacale non si è adeguata ai modelli produttivi, che si sono evoluti nelle imprese distrettuali e a rete, nelle medie imprese radicate nei territori e che operano nei mercati globali. E’ in queste realtà che si sta già sperimentando una forte convergenza di interessi tra imprese e lavoratori. E’ un dato nuovo, un valore importante, un’opportunità che va colta.
Chiediamo ai sindacati di cambiare in profondità per non condannarci ad una perdita forte di competitività e di benessere.
Chiediamo ai sindacati di negoziare nell’interesse vero dei lavoratori e non di qualche superata ideologia.
La riforma della contrattazione dovrà riguardare anche il pubblico impiego, che ha inspiegabilmente ottenuto negli ultimi anni incrementi retributivi più che doppi rispetto al settore privato, senza alcun aumento di efficienza.
I tassi di assenteismo nel pubblico impiego sono uno scandalo nazionale. Noi non accettiamo un sistema dove ci sono persone che timbrano il cartellino e subito dopo abbandonano il posto di lavoro. E’ un insulto nei confronti dei lavoratori onesti, pubblici e privati.
Non possiamo più sopportare che una parte del Paese, sottratta ad ogni controllo, scarichi i suoi costi e le sue inefficienze sulla parte sana. Quella parte che lavora e produce per tutti e che ormai manda inequivocabili segni di insofferenza.
Oltre alla contrattazione, vanno riviste le regole del mercato del lavoro e del welfare. Va aggiornato il quadro dei diritti dei lavoratori e bisogna adottare modelli di flexicurity. Non è il posto di lavoro che deve essere garantito, ma un reddito e una formazione adeguati, come accade nei paesi con sistemi di sicurezza sociale più moderni ed attivi.
E questa è sempre stata l’idea di Marco Biagi e Massimo D’Antona, che hanno pagato con la vita la volontà di innovare e di guardare al futuro. A loro va il nostro ricordo e il nostro grazie.
Il welfare italiano è particolarmente inefficiente ed iniquo. Quasi il 60% della spesa sociale serve a coprire dal rischio di vecchiaia, perché l’età media dei pensionati è bassa e il pensionamento avviene tre anni prima che nella media dell’OCSE. Negli Stati Uniti la pensione viene erogata per dodici anni, in Danimarca per undici anni, in Svezia per tredici, in Italia per diciassette.
L’età della pensione andrebbe indicizzata all’aumento della speranza di vita.
Questa distorsione condanna l’Italia a destinare appena il 2% della spesa sociale al sostegno del reddito di chi ha perso il posto di lavoro, un terzo della media europea. Altrettanto scarsi sono gli aiuti alla famiglia e ciò si riflette nella bassa natalità. Solo il 12% della spesa sociale va al 20% più povero della popolazione.
Con questo squilibrio a favore delle pensioni, abbiamo rinunciato a quella grande risorsa che è l’occupazione femminile. C’è uno slogan efficace che riassume la questione: troppe donne a casa, troppe culle vuote, troppi bimbi poveri.
Così si bruciano enormi potenzialità. Nell’ultimo decennio l’incremento del lavoro femminile nei paesi sviluppati ha contribuito alla crescita mondiale come l’intera economia cinese.
In Italia è attivo solo il 47% delle donne in età lavorativa. Si scende al 31% nel Mezzogiorno. Con una occupazione femminile allineata ai tassi medi europei, il nostro PIL sarebbe più alto di quasi il 7%.
Il lavoro femminile aumenta il reddito familiare e genera nuova occupazione. Dobbiamo avere più donne al lavoro e un welfare più a favore della famiglia e dell’infanzia.
“Non è un paese per vecchi” è il titolo di un romanzo di McCarthy e del recentissimo film che ne è stato tratto. Se guardo all’Italia devo dire con rammarico che non è un paese per giovani.
Da troppi anni sono state adottate scelte e politiche contrarie all’interesse delle nuove generazioni. Pensiamo al debito pubblico più alto d’Europa che scarichiamo sui più giovani. O alla spesa pubblica improduttiva che cresce a dismisura e dissipa oggi molte risorse che dovremmo invece investire per il domani.
Noi vogliamo una società aperta, che premi e promuova il merito, dove siano date a tutti uguali opportunità di partenza e dove l’anzianità di carriera non sia il principale criterio di remunerazione delle capacità. Dove ci siano maggiore mobilità sociale, più competizione e solidarietà nei confronti dei più deboli.
Compete anche a noi costruire una società più aperta, trasparente, che non sia preda dei privilegi corporativi. Ma ai giovani dico con altrettanta chiarezza: guardate alla competizione e al merito come valori positivi, pretendeteli nelle scuole e nelle università, non fatevi sedurre dai cattivi maestri dell’egualitarismo al ribasso che toglie opportunità a chi ha talento, a chi si vuole impegnare e vuole farsi valere.
Guardate con grande attenzione alle ragioni vere della vostra generazione. Non lasciatevi strumentalizzare da chi vi chiede di sostenere interessi e privilegi -dalle pensioni alle rigidità del mercato del lavoro - che sono rivolti contro di voi.
*****
Non ci può essere vera solidarietà senza uno Stato efficiente. Non c’è rispetto dei diritti e tutela dei cittadini. Non c’è libertà di impresa, non c’è giustizia, non c’è buona istruzione, non c’è legalità, non c’è lotta all’evasione.
Servono uno Stato leggero e rigoroso, una pubblica amministrazione che funzioni, vicina ai cittadini e alle imprese, inflessibile contro chi non rispetta le regole e danneggia la comunità. Ci sono molte eccellenze anche all’interno della macchina pubblica. Ma si tratta di generosità individuali e di professionalità isolate.
I dipendenti pubblici in Italia sono mal distribuiti per funzione e sul territorio. In rapporto agli abitanti, al Sud sono il 50% in più che al Nord. Serve una grande ristrutturazione. Si devono utilizzare in modo oculato il turnover, la mobilità geografica e ammortizzatori sociali di durata limitata.
“Se uno è giovane e ha talento, difficilmente si fa strada negli uffici statali.” Lo scriveva un secolo fa il romanziere Hasek. Da noi non molto è cambiato. E’ necessaria un’azione di medio termine per coinvolgere e valorizzare il personale migliore e penalizzare i furbi. Questo sarà un banco di prova anche per i sindacati.
Leggiamo che i fannulloni verranno licenziati. E’ un principio che ci trova pienamente d’accordo, a patto che alle parole seguano i fatti. Altrimenti sarà l’ennesima sconfitta di tutti coloro che, nel privato come nel pubblico, lavorano con serietà.
Bisogna semplificare, ridurre il numero delle leggi, eliminare le incertezze di interpretazione. Il nostro paese associa una singolare diffusione dell’illegalità a una pletora di regole spesso contraddittorie e incomprensibili, che governano minuziosamente la vita dei cittadini. La burocrazia è uno dei principali ostacoli agli investimenti in Italia.
Chiediamo che venga attuato il progetto “impresa in un giorno” e che venga riformata la giustizia civile che non funziona. Per recuperare un credito occorrono 40 mesi, contro i 12 dei maggiori paesi industrializzati. Ciò mina alla base la certezza del diritto, la tutela della proprietà, il rispetto dei rapporti contrattuali.
La certezza del diritto è fondamentale. Non c’è mercato senza legge.
Come spiega l’economista Hernando De Soto, ciò che accomuna le aree del mondo che non riescono a svilupparsi non è la carenza di iniziativa economica. E’ la difficoltà a rappresentare i diritti di proprietà, cioè la mancanza di una relazione tra legge e mercato.
Sulle piccole imprese il costo della burocrazia grava per quasi 15 miliardi di euro l’anno: un punto di PIL sottratto al loro sviluppo. Ventisette adempimenti informativi in materia di lavoro, previdenza e assistenza gravano sulle imprese per quasi 10 miliardi. Quindici adempimenti ambientali valgono 2 miliardi di euro. Un miliardo e mezzo di euro è il costo di sette adempimenti per la normativa antincendi. Una vera emergenza nazionale.
I ritardati pagamenti della pubblica amministrazione, soprattutto nelle aree meridionali, rappresentano la causa di fallimento in un caso su quattro.
E’ difficile immaginare una democrazia funzionante quando è lo Stato il primo a non rispettare le regole.
La politica ha invaso l’amministrazione, piegandola a fini impropri di ricerca del consenso. Ne ha minato l’efficienza e l’imparzialità e nello stesso tempo ha perso autorevolezza, capacità di controllo e di indirizzo. La lottizzazione minuta delle cariche e degli impieghi ha progressivamente smantellato i centri di competenza.
La politica deve ritirarsi velocemente dai compiti che non le appartengono. Deve tornare alla missione che le è propria: definire gli orientamenti strategici dell’azione pubblica e comporre gli interessi. Deve uscire dalle gestioni, rinunciare a decidere gli appalti e a nominare i primari degli ospedali. Non deve interferire nell’attività delle aziende.
Si devono tagliare i costi della politica - a cominciare dal numero dei parlamentari e dei componenti delle altre assemblee elettive e eliminare i privilegi. Si devono ridurre i livelli decisionali partendo dalle province.
Bisogna affermare, nella gestione della cosa pubblica a tutti i livelli, un costume di sobrietà. Diventerà più positivo il rapporto fra i cittadini, lo Stato, la politica.
Lo Stato deve assicurare buone prestazioni. Vogliamo una scuola pensata per gli studenti e non per gli insegnanti, una sanità organizzata sulle esigenze dei pazienti e non su quelle dei medici o degli infermieri, uffici pubblici con orari di apertura strutturati per favorire la popolazione più che gli impiegati.
*****
Lo Stato italiano è inefficiente anche quando incassa imposte e contributi. La pressione fiscale è superiore alla media europea ed è profondamente disomogenea: l’evasione sottrae alle casse pubbliche almeno 90 miliardi l’anno e fa salire per i cittadini onesti la pressione fiscale sopra il 51%. Siamo oltre i livelli svedesi. Con servizi neanche lontanamente comparabili.
Nonostante la riduzione delle aliquote varata dall’ultima Finanziaria, il prelievo effettivo sugli utili d’impresa resta in Italia il più alto d’Europa. E’ un chiaro invito a non investire da noi, in un mondo dove i sistemi fiscali rappresentano un importante elemento competitivo fra paesi.
Si devono perciò muovere altri passi verso la riduzione delle aliquote IRES e IRAP, guardando alla pressione effettiva e non a quella nominale. Per l’IRAP è auspicabile una progressiva deducibilità e va drasticamente ridimensionata la componente costo del lavoro, una sorta di tassa sugli occupati. Tutto dovrà avvenire in un quadro di equilibrio delle finanze pubbliche e di riduzione del debito, basandosi sui tagli alla spesa.
In questi anni le imprese hanno contribuito molto all’incremento generale del gettito tributario. Nel 2007, a parità di aliquote, il gettito IRES è aumentato del 27% rispetto al 2006 e di quasi l’80% rispetto al 2004.
La pressione fiscale sulle imprese va abbassata. Chiediamo stabilità e continuità normativa per consentire programmazioni di medio periodo.
Bisogna continuare nella lotta all’evasione e all’elusione fiscali che danneggiano le imprese e i contribuenti onesti. Il fisco deve essere severo con i furbi e gli evasori, costruttivo nel rapporto con i tanti che rispettano le regole.
Abbiamo bisogno di un’amministrazione finanziaria che capisca l’impresa e non cada nell’errore di chi pensa che l’evasione sia ovunque. Le imprese, soprattutto le piccole, devono essere accompagnate e aiutate nel corretto adempimento dei propri doveri.
Va eliminata, e presto, la piaga dei ritardi nei rimborsi d’imposta, già condannata dalla Corte di giustizia europea.
E non è accettabile che l’amministrazione finanziaria possa bloccare i pagamenti dovuti alle aziende in presenza di un contenzioso anche di poche migliaia di euro. E’ un sistema per risparmiare sulla cassa. Non è degno di un paese moderno.
Serve un nuovo rapporto di fiducia tra il fisco e le imprese.
*****
Uno Stato più efficiente passa anche attraverso un progetto di federalismo che dia ad aree omogenee capacità di azione per filtrare e affrontare le sfide della globalizzazione. Un nuovo federalismo può valorizzare le potenzialità dei territori, attrarre investimenti e talenti, essere aperto alla competizione e aumentare il livello di efficienza.
Il processo federalista è a metà del guado. Così com’è non funziona. Negli anni 2000, quando sono state iniettate dosi più consistenti di decentramento, le spese correnti delle amministrazioni locali sono esplose. La spesa sanitaria è salita di oltre il 50%. Nello stesso tempo non è stato posto alcun freno alle spese delle amministrazioni centrali. Un percorso insostenibile.
E’ invece possibile un federalismo virtuoso, come ci insegnano molti paesi europei.
Per l’Italia, il prossimo passaggio è il federalismo fiscale. Deve costituire un’assunzione di responsabilità e accompagnarsi ad un taglio di spesa frutto della guerra alle duplicazioni, alle sovrapposizioni, agli sprechi. Deve essere l’occasione per rivedere la distribuzione delle competenze a cui vanno commisurate le fonti di entrata.
Devono tornare al centro le materie connesse alle grandi reti nazionali di energia, trasporto e comunicazione. Può essere largamente decentrata la gestione di molti servizi pubblici: scuole, trasporti locali, servizi per l’immigrazione e l’integrazione.
Il decentramento delle imposte funziona se c’è la piena percezione dei cittadini di destinare una parte del loro reddito agli enti locali. Si innesca così il circuito positivo del “pago - controllo esigo”. Deve coniugare equità ed efficienza e sponsabilizzare i politici e l’apparato amministrativo.
*****
Federalismo non significa neostatalismo. A livello locale sono ormai concentrati sia il patrimonio immobiliare pubblico sia l’intervento in economia con un numero impressionante di aziende.
Sono 4 mila e 800 società, con oltre 250 mila addetti. Hanno fini sempre più impropri: aumento delle entrate dei bilanci locali e della loro capacità di spesa, aggiramento dei vincoli di finanza pubblica, gestione del potere, distribuzione di cariche e relativi
emolumenti alla classe politica.
Si usano, male, i soldi dei contribuenti per produrre, attraverso imprese pubbliche, i servizi di cui i comuni, le province o le regioni hanno bisogno.
Si sottrae mercato ai privati, si fa concorrenza sleale, si rinuncia all’efficienza e ai risparmi di spesa che verrebbero da una competizione fra più soggetti attraverso appalti pubblici trasparenti. Si scaricano i costi su imprese e cittadini.
Privatizzando aziende e immobili pubblici si possono ottenere rilevanti flussi di cassa e enormi guadagni di efficienza.
C’è, nei confronti di questo percorso, una forte resistenza. Ma il cammino delle privatizzazioni e delle liberalizzazioni va ripreso, sia a livello nazionale, sia a livello locale. Condividiamo l’idea di essere attenti ad alcuni interessi strategici che non possono essere ceduti a monopoli stranieri o a fondi sovrani.
Ma non possiamo nemmeno accettare di aver combattuto oltre vent’anni fa il “panettone di Stato” per ritrovarci con un esercito di piccole software house comunali.
L’Europa ci impone di liberalizzare il settore dei servizi.
E’ questa la strada da percorrere invece di aumentare ogni genere di tributo come stanno facendo quasi dappertutto regioni ed enti locali. In particolare nel Mezzogiorno dove, per effetto delle addizionali IRAP, si è caricata sulle imprese una fiscalità più pesante rispetto al resto del Paese.
Nelle regioni dove la spesa sanitaria è fuori controllo bisogna dire basta alle addizionali e alla politica del “tassa e spendi”. Gli amministratori siano chiamati a rispondere del fallimento della loro gestione.
*****
Non può esservi ripresa durevole della crescita dell’Italia se non si rimette in moto il Mezzogiorno.
La crisi del Mezzogiorno è civile e istituzionale, prima ancora che economica.
Un fiume di denaro proveniente dal resto del Paese e dall’Europa è stato dissipato negli ultimi tre decenni, senza miglioramenti visibili dell’ambiente economico e del tessuto produttivo. La corruzione e le attività malavitose impediscono il lavoro delle imprese oneste.
Il Mezzogiorno ha in sé anche enormi potenzialità. Il PIL per abitante è al Sud pari al 57% di quello del Nord: portarlo allo stesso livello delle regioni settentrionali nell’arco di quindici anni comporterebbe una crescita annua del 6% per l’area e tre milioni di nuovi occupati. Il Mezzogiorno diventerebbe un volano di crescita per l’intero Paese.
Grazie al contributo dell’Unione Europea, tra il 2007 e il 2014 sono disponibili 100 miliardi di euro per investimenti nelle zone in ritardo di sviluppo del nostro paese. Vogliamo, insieme con le altre forze sociali, evitare di disperderli in mille rivoli e verificare attivamente dove saranno destinati.
Bisogna indirizzare l’intervento verso pochi e chiari obiettivi misurabili: innanzitutto la sicurezza e poi un piano per le infrastrutture. Occorre inoltre investire in istruzione e innalzare la qualità delle amministrazioni e delle aziende pubbliche, vero handicap del Mezzogiorno.
*****
Un paese che voglia crescere deve investire nella formazione, nella scuola e nell’università. Innalzare l’istruzione ai livelli dei migliori paesi aumenta nel medio periodo il reddito pro capite del 15%.
Va cambiata la cultura che ha indebolito la scuola e l’università per un malinteso e dannoso egualitarismo.
Invece di spingere i ragazzi a studiare di più, è prevalsa l’idea di promuoverli più facilmente. Si è pensato che il titolo di studio, e non la qualità dell’istruzione, fosse la chiave della promozione sociale. Invece di valorizzare i talenti, si è appiattito tutto verso il basso.
Il risultato è che a 15 anni un ragazzo italiano ha già perso un anno di apprendimento rispetto a un suo coetaneo europeo.
La selezione dei docenti è spesso degenerata: autogestione sindacale nella scuola, cooptazione baronale nell’università. Si sono ridotti gli investimenti pubblici, ma si è anche sprecato a piene mani. Il finanziamento pubblico non premia le università migliori o più efficienti; quelle di bassa qualità continuano a illudere schiere di giovani con titoli di studio senza valore.
E’ essenziale che la qualità dei docenti sia ricompensata con incentivi di carriera e premi economici. Va promossa l’emulazione tra le scuole.
L’università ha moltiplicato le cattedre e marginalizzato la ricerca scientifica. Abbiamo 94 atenei e 2700 corsi di laurea, alcuni dei quali decisamente stravaganti, ma le imprese non trovano abbastanza giovani con specializzazioni tecnico - scientifiche.
Vanno rivalutati gli istituti tecnici e professionali, devono moltiplicarsi le sinergie tra aziende e atenei per la ricerca applicata. Si può ripartire dai centri di eccellenza di alcuni politecnici per sviluppare anche la ricerca di base.
Dobbiamo investire sulla qualità, valutando a livello nazionale l’apprendimento nelle materie chiave. Dobbiamo ricercare e promuovere i talenti. Mentre da noi si teorizza l’uguaglianza nella mediocrità, in Gran Bretagna si è creato - con una selezione oggettiva e trasparente - un gruppo di scuole capaci di valorizzare i più bravi e preparare le classi dirigenti del futuro.
Così si costruisce il futuro sulla base del merito e non con le promozioni di massa.
Mi rivolgo, come mamma di una bambina di 5 anni, a tutti i genitori. Dobbiamo assumerci la responsabilità di garantire ai nostri figli un’educazione ed una preparazione di qualità perché essi dovranno vedersela con un mercato dei talenti senza frontiere, dovranno confrontarsi con la concorrenza intellettuale degli immigrati di seconda generazione, fortemente motivati a salire nella scala sociale.
I nostri figli rispetto a noi avranno sfide molto più difficili. Dobbiamo dar loro una scuola esigente, selettiva, di eccellenza, che consenta di affrontare la competizione con le carte migliori.
*****
In questi anni, in un sistema Paese poco competitivo, le imprese italiane hanno fatto grandi progressi. Si sono ristrutturate e hanno investito sulla qualità, su prodotti a più alto valore aggiunto e con maggiore contenuto tecnologico. Hanno affrontato a viso aperto il confronto sui mercati internazionali.
Il sistema industriale italiano oggi appare complessivamente più forte, in molti settori di nuovo protagonista. Vogliamo fare ancora di più. Guardiamo alla Germania, paese maturo che ha saputo ritrovare vocazione industriale, forte competitività e capacità di leadership.
Noi siamo pronti a fare ogni sforzo.
Voglio sottolineare quattro impegni, che considero strategici.
Il primo riguarda la sicurezza sul lavoro. Noi sappiamo quanto i veri imprenditori tengano ai loro lavoratori. La sicurezza sul lavoro è un nostro obiettivo, prima ancora che la legge ce lo imponga.
Siamo pronti a collaborare in ogni modo per combattere gli infortuni sul lavoro, anzitutto con una campagna di sensibilizzazione, formazione, prevenzione.
Come sapete noi non condividiamo il provvedimento approvato negli ultimi giorni della scorsa legislatura, soprattutto perché manca quasi del tutto una politica attiva a favore della sicurezza.
Questo per noi è un impegno molto forte.
Il secondo è l’impegno per gli investimenti in ricerca e innovazione. La spesa pubblica è chiaramente insufficiente ma, pur con molte eccezioni, anche le imprese sono in ritardo. Dobbiamo innalzare gli investimenti al livello dei concorrenti più agguerriti: qui si gioca la nostra capacità futura di competere.
Il terzo riguarda i cambiamenti climatici, strettamente legati alla nostra sicurezza energetica.
L’industria italiana già oggi ha buoni livelli di efficienza energetica.
Occorre invece che il Paese nel suo insieme migliori i propri standard. Su questa sfida vogliamo giocare un ruolo importante.
La crescente attenzione dei consumatori al risparmio energetico, all’inquinamento, alla tutela ambientale, alla sicurezza in campo alimentare e lo sviluppo di nuove tecnologie in questi settori aprono nuovi mercati. Trasformano le sfide climatiche in una occasione di crescita, in un elemento distintivo di competitività.
Le imprese italiane possono far leva sull’immagine di qualità della vita del Paese e affermarsi come leader in questi campi. Stanno adottando politiche lungimiranti per il risparmio energetico, le infrastrutture energetiche, le fonti rinnovabili e il nucleare.
E’ tempo di tornare a investire nell’energia nucleare, settore dal quale ci hanno escluso più di vent’anni fa decisioni emotive e poco meditate. Ciò ha accresciuto la nostra insicurezza e la dipendenza dall’estero, ha sottratto altre risorse alla crescita, ha gonfiato le bollette elettriche di famiglie e imprese.
Il quarto impegno è il pieno rispetto delle regole, la lotta per la legalità e contro le mafie che avvelenano il mercato e la stessa vita civile in molte zone del Paese. Gli imprenditori sono già in prima linea. Mettono a rischio le loro capacità e i loro beni e qualche volta anche la vita.
Voglio ringraziare coloro che fanno impresa nel Mezzogiorno.
Noi vi siamo vicini. Nella coraggiosa lotta alla criminalità avrete sempre il nostro supporto. Non vi lasceremo soli.
Questa vostra battaglia fa onore a tutti gli imprenditori italiani.
C’è un ultimo impegno che voglio affermare: è quello di cambiare anche come associazione delle imprese. Confindustria compirà 100 anni nel 2010. E’ una istituzione forte e credibile, ai massimi storici per numero di associati. Ma anche noi abbiamo bisogno di riforme per rispondere sempre meglio alle nuove istanze di rappresentanza e di servizi che provengono dalle imprese. La modernizzazione deve essere un obiettivo costante.
*****
Autorità, Colleghi, Signore e Signori,
da troppo tempo l’Italia è bloccata: non riesce ad assicurare condizioni adeguate di benessere ai suoi cittadini e prospettive di miglioramento ai suoi figli.
Viviamo in un tempo in cui il rischio più grande è quello di pensare solo a noi stessi, ai nostri più diretti interessi, ciascuno alla propria generazione, alla stretta quotidianità.
Abbiamo il dovere di dare risposte ai problemi di oggi e di immaginare una storia per il futuro. Dobbiamo sollevare lo sguardo e costruire un nuovo sviluppo.
Unità, coesione, iniziativa, dedizione, amore per noi stessi: dobbiamo ritrovare lo spirito italiano che rende raggiungibile ogni traguardo.
Quello spirito italiano è imbattibile nelle emergenze. Deve essere prassi anche nella quotidianità. Nelle scorse settimane ci ha consentito di portare in Italia l’Expo 2015.
Dobbiamo rilanciare quello spirito, riscoprire l’orgoglio di essere italiani e di ritrovare la forza ideale di un grande traguardo: restituire al nostro paese il senso del suo ruolo nel mondo che cambia, non da gregari ma da protagonisti.
Il “dovere” verso il futuro è nel codice genetico delle imprese e degli imprenditori. Una tensione continua a cambiare, a inventare, a rimodernarci: è il nostro “marchio di fabbrica” da difendere e diffondere sui mercati e nel confronto con le istituzioni e con le rappresentanze sociali.
Questa è la nostra missione.
Il successo delle imprese è la ragione di Confindustria.
L’impresa è un valore centrale per la vitalità di una economia e di una comunità. E’ un laboratorio di cittadinanza, dove collaborano e si fondono etnie e culture diverse. L’impresa è il luogo di lavoro in cui imprenditori e dipendenti sentono un interesse comune.
Tutti noi siamo chiamati ad una grande sfida. C’è uno scenario nuovo e irripetibile. Abbiamo la possibilità di far rinascere il Paese.
Vorrei chiudere con una frase del filosofo Diderot. “Solo le passioni, le grandi passioni, possono innalzare lo spirito a grandi cose”.
Ci muove una straordinaria passione per l’Italia. Per questo sono ottimista. Sono sicura che non sprecheremo questa occasione".